Ho saputo di avere un tumore due anni fa, dopo il primo intervento in ospedale. Avrei dovuto iniziare con la chemioterapia, ma così non è stato. Ho cambiato ospedale e ho iniziato dopo alcune complicazioni con un anno e mezzo di immunoterapia. Non è stato facile, ma è andata bene: la mia è una storia con un buon finale. Potrei raccontarne i fatti, i particolari e l’intero percorso tra interventi e ricoveri ma preferisco condividere qualcosa di più profondo dei fatti, qualcosa che sia diretto a tutti: quello che ho provato, le emozioni più intense, le più brutte e le più belle.
Dover affrontare una malattia, un tumore in particolare, non è facile: si passa attraverso rinunce, timori e momenti di sconforto, si impara a convivere con un male che sta dentro di te e che in qualche modo bisogna allontanare. E’ difficile, è faticoso e soprattutto fa enormemente paura perché spesso sembra che il mondo si riduca a nulla più che ai giorni passati in ospedale, alle ore trascorse tra controlli, attese e terapie. E i momenti più bui sono proprio quelli in cui ti dimentichi chi sei, dimentichi cosa stavi facendo prima e cosa vorrai fare dopo, tutto il tempo si appiattisce a un presente difficile da accettare, ma che bisogna affrontare. Per fortuna però non è tutto qui. Non siamo solo questo.
Mi sono sentita piccola e fragile (troppo debole per mangiare, troppo stanca per parlare, avendo voglia solo di riposare) ma lo stesso ero io. Anche da paziente, anche da malata, quella vita era comunque la mia – con qualche difetto forse, non perfetta come l’avevo immaginata, ma lo stesso mi apparteneva. Quando l’ho capito, ho iniziato ad accettare cosa stava succedendo al mio corpo e ho vissuto quello che mi accadeva come un’esperienza nuova, senza negare la malattia, senza rifiutarla. Era mia la scelta. Ero io al centro, così com’ero e quel tumore faceva parte di me stessa. Accettarlo è stato uno dei momenti più liberatori che abbia mai provato. Ed è stato possibile non solo perché l’ho deciso io, ma anche perché intorno a me ho incontrato infermieri e medici per i quali non ero solo un paziente in più, un nome aggiunto all’elenco, una persona tra le tante. Ero Alice, ero io – dentro l’ospedale come fuori. Una mano sulla spalla, un abbraccio, un sorriso, una parola in più. Tutto questo ha fatto la differenza, per me. E’ stato bello.
Ci sono molti modi per raccontare un cancro (moltissime metafore di guerra, quelle del dono, quelle di piccoli eroi o grandi guerrieri), ognuno a un certo punto trova il suo. Nel mio caso ho il coraggio di dire che non tutto è da buttare, che ancora ripenso a certi momenti come a piccole stelle intense che brillano. Come ad esempio quando, dopo il secondo intervento, il reparto dove ero ricoverata sapeva che ero guarita. Nessuno lo aveva detto ad alta voce (o almeno io non lo sapevo), era una buona notizia che svolazzava nell’aria. Quando me ne sono andata, ho salutato chi mi era stato vicino per tutto quel tempo: molti sorrisi, qualche abbraccio, pochissime parole. In fondo non serviva dire niente: avevamo condiviso insieme parte di un momento difficile, e adesso tutto andava bene. Quelle persone mi avevano accompagnato per mano per un po’ e ora invece tornavo a camminare da sola. Non si poteva aggiungere altro.
E alla fine cosa rimane? Non lo so di preciso: qualche cicatrice in più e una storia da raccontare, credo. C’era una volta un poco di tempo fa… a volte continuo parlando di un drago cattivo e della principessa da salvare, altre invece racconto di una foresta buia da attraversare, altre ancora me ne dimentico, resto in silenzio e ascolto gli altri parlare, senza conoscere il finale.
Alice