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Per paura di una colonscopia …

Lottare per vivere. E vincere.

“E alloraaa? È arrivato il momento di sto cazzo di caffè?”. Quella parolaccia buttata lì suonava come una grande liberazione. Come la rottura definitiva di ogni barriera e un sospiro liberatorio finale. Pietro – non è il suo nome, ovvio, ma le righe che seguono vi direbbero chi è e lui non vorrebbe – aveva letteralmente sputato fuori quelle parole a gran voce aprendo la porta dell’ambulatorio. “Pietroooo, fatti abbracciare bestiaccia” gli corsi incontro con uno slancio incontrollato, come un colpo da dentro. Le lacrime gli bagnarono gli occhi all’istante. “Si che ce lo andiamo a prendere il caffè, anche corretto. Dammi un secondo che mollo il camice”.

Alcune storie, alcuni pazienti. Lasciano il segno. Una cicatrice. O un bel tatuaggio.

C’eravamo conosciuti otto mesi prima. Una domenica sera ricevetti un sms. Lo lessi a mezza bocca seduto davanti ad una pizza fredda consegnata a domicilio. “Salve Dr. Loupakis, mi chiamo Pietro M. sono un collega radiologo dell’Ospedale di X. mi hanno fatto il suo nome. Quando posso chiamarla?”. “Ciao Pietro, possiamo darci del tu, sono in viaggio domani mattina presto, rientro Mercoledì sera, ok?”. “È per una cosa personale, se non puoi prima aspetto”. Si, ammetto,sbuffai scocciato, non avevo molta voglia. Mi ero fatto una domenica oncologica con il culo sulla sedia a lavorare al computer. Ma è sempre così, il tempo entro cui prevale quel mix di senso di colpa e senso di responsabilità – questa volta per di più condito dal senso di solidarietà professionale – si misura in secondi. Ancora un sospiro e poi veloce sui tasti: “Anche adesso”.

Mi ero fatto una domenica oncologica con il culo sulla sedia a lavorare al computer.

Non riesco a riportare fedelmente le parole di quella telefonata. Potrei inventarle. Licenza poetica, giusto? Ma non mi va. Mi basta quello che ricordo di quando buttai giù. La mia versione del suo racconto. E il ricordo di me. Di quella sensazione di freddo, di fiato corto, di mani umide che non sta – o non dovrebbe stare troppo – al medico. E che francamente non ho provato così spesso, neanche davanti ai primi casi più difficili. Entrai in bagno, con lo stomaco chiuso, la pancia stretta e mi sfiorai il fianco destro. In alto, accarezzandomi le coste. Appena. Quasi di nascosto a me stesso. Eppure lo feci dicendomi allo stesso tempo: “Ma davvero Fotios? Pensi a te adesso? Sei così egoistipocondriaco?”.

Si impara a Medicina l’ipocondria. Fa parte del pacchetto. Non c’è un esame apposta, ma solo perché sarebbe troppo facile.

Pietro ha un ambulatorio di ecografia, mi aveva appena detto di essersi lasciato star male per qualche settimana. Rimandando ogni giorno a quello dopo. La perdita dell’appetito. I chili che andavano via. La stanchezza. E quel senso di peso proprio lì, al fianco destro. Poche ore prima aveva deciso di farlo. Di guardarsi dentro da solo. Prendere l’ecografo, la sonda. Strizzare il dispenser di gelatina fredda sulla sua di pancia. E io pensai che quel gesto fatto venti volte al giorno sull’addome di qualcun’altro, quell’agitare e stringere quel tubetto come fosse ketchup con quella certa fretta e lo sguardo del “suvvia non si lamenti però eh”, non poteva che essere durato un’eternità. Dilatato al punto da contenere tutte le migliaia di ecografie fatte da professionista. Ma quella volta era protagonista indiscusso. Vittima e carnefice. Giudice e imputato. Medico e paziente. Sullo schermo sono apparse subito. Una dopo l’altra. Metastasi. Quattro cerchi inconfondibili per lui. Diaframma paralizzato e bocca completamente asciutta in un istante. E allora è bastato connettere i puntini per vedere quella diagnosi oscurata per settimane stamparsi indelebile nella mente.

Quel rimandare e rimandare. I chili che andavano via. La stanchezza.

Nel dirmi che si era fatto un’ecografia da solo trovandosi delle metastasi tumorali al fegato e una massa nel colon sinistro, ovvero l’origine del problema, Pietro piangeva. Ripeteva di non sapersi spiegare come aveva potuto essere così stupido. Come tutti compiuti i cinquant’anni aveva ricevuto a casa la raccomandazione a fare un esame delle feci. La ricerca del sangue occulto. Si chiama così. Occulto. Me lo chiedo da medico, ma come si fa a usare un nome così? Pietro aveva portato il suo campione di feci in laboratorio solo dopo qualche mese. Con la via preferenziale di un vecchio amico che lavorava lì. In fondo se sei un medico ne approfitti, no? Mica stai agli appuntamenti normali. È normale così. “Ma si Pietro, ci sta”. Penso di averlo ripetuto una decina di volte. Poi mi disse del risultato positivo del sangue nelle feci e della raccomandazione di fare una colonscopia. Lì giocò d’anticipo: “Non mi chiedere nulla, non lo so, non l’ho fatta. Non mi dire nulla”. Così ho deciso di chiudere quella telefonata secco ma con l’idea di dargli la massima tranquillità. “Fidati di me. Puoi aspettare mercoledì, ci vediamo e facciamo un piano. Insieme.” Ci credetti davvero che quel percorso l’avremmo fatto insieme. Era una parola importante in quel momento. Suonava diversa dalle altre. Forte, pesante, calda. Insieme.

La colonscopia? Non chiedermi nulla, lo so. Non l’ho fatta.

La verità è che insieme non lo si è davvero. Tutto quello che è venuto dopo, esami, terapie, un bel po’ di preoccupazioni, qualche effetto collaterale – non molti per la verità – se li faceva lui. Ed era sempre solo. Mai visto nessuno con lui. Mai chiesto molto. Fin dalla prima volta che ci siamo visti finiva sempre con: “Troppo impegnato per un caffè?”. “Adesso non riesco Pietro, magari la prossima volta”. Mi sono sempre interrogato su quella solitudine, ma mi pareva serena. E così scivolava via, ogni quindici giorni. Fino alla prima tac. Dovrei scrivere TC. Ma preferisco tac.

Ovviamente fu lui a darmi la notizia e non io come nelle altre circostanze. La tac andava alla grande. Quella che chiamiamo un’ottima risposta. E allora avanti con un bel cambio d’umore e un’endovena di fiducia oltre che di chemioterapia. La prospettiva che si apriva con Pietro da quel momento non è per tutti. Alcuni pazienti con tumore colo-rettale e metastasi al fegato possono essere operati sul fegato stesso con la prospettiva di rimuovere tutte le cellule malate. Pietro era presto diventato un avido e insaziabile lettore di letteratura scientifica. Da medico, direte voi, è facile. Per nulla.

Una delle difficoltà maggiori dell’essere medico è diventare un paziente.

Da una parte hai gli occhi, e la testa, del malato. Dall’altra ti senti quasi in dovere di capire ma ti rendi conto che “se non è roba tua” è davvero un gran casino. Districarsi in labirinti di dati pubblicazioni, opinioni di esperti, pareri, novità dei congressi. E poi boom, quando spegni il computer e sul riflesso nero del monitor vedi la tua faccia con i segni della terapia, tornano la paura e la confusione, che fanno poca rima con scienza e coscienza.

Risposta-Completa
Immagine Astratta “Assenza di cellule neoplastiche”
“Nessuna evidenza di cellule neoplastiche residue”

Alcuni mesi dopo, finalmente, davanti a quel caffè Pietro mi raccontava dell’intervento, della risposta dell’esame istologico che diceva “nessuna evidenza di cellule neoplastiche residue”, della tac che diceva “nessuna evidenza di malattia”. Aveva fatto un bel pieno di voglia di vivere nelle ultime ore, un po’ di piani per i mesi successivi, alcune robette da sistemare. “Ora le chiamo robette” mi disse “un’anno fa sembravano tutto”. E con una mano sulla mia spalla mordendosi un dito dell’altra: “ma ti rendi conto, porca troia, che forse sarebbe bastato fare quella maledetta colonscopia?”

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