Abbiamo fatto alcune domande al prof. Massimo Di Maio per parlare di qualità della vita in oncologia. Un tema che a KISS ovviamente sta molto a cuore. Massimo ci ha descritto cosa si intenda di preciso con questo termine e per spiegarsi meglio ci ha fatto qualche esempio. Come sempre, cerchiamo di comunicare in modo semplice e chiaro cose importanti. Speriamo di esserci riusciti!
In campo oncologico le sfide sono tante per medici, pazienti e infermieri. Bisogna capire quale cura possa essere la più efficace, quali siano le scelte giuste da fare, bisogna gestire emozioni forti, cercando di adattarsi a una situazione che spesso richiede di cambiare stile di vita e modificare temporaneamente i propri progetti. Assicurare a tutti un’adeguata qualità di vita è considerato oggi uno degli obiettivi della cura oncologica. Ma cerchiamo di capire meglio di cosa stiamo parlando.
Qualità della vita, che cos’è? Mi piacerebbe riuscissi a spiegarlo come a un bambino. Io ormai, come medico e come papà, ho quell’approccio nei confronti di quello che non acchiappo fino in fondo: riparto da zero…
I tumori spesso hanno un impatto importante sui pazienti in termini di sintomi, e quindi uno degli obiettivi del trattamento è quello di migliorare i sintomi della malattia. D’altra parte, quasi tutti i trattamenti antitumorali presentano degli effetti collaterali, che a volte possono essere anche molto “pesanti” per i pazienti. Per questi motivi, a me piace illustrare l’effetto di un trattamento antitumorale come una bilancia: su un piatto gli effetti “positivi” sui sintomi di malattia, sull’altro gli effetti “negativi” legati alle tossicità delle terapie. Ecco, questa bilancia è uno dei modi con cui è possibile descrivere l’effetto di un trattamento sulla qualità di vita. Ovviamente, è importante che la bilancia penda dalla parte degli effetti positivi. Naturalmente – obietterà qualcuno – i trattamenti antitumorali non hanno solo lo scopo di controllare i sintomi, ma hanno anche lo scopo di impedire la crescita della malattia e garantire ai pazienti un prolungamento dell’aspettativa di vita. Questo è sicuramente vero, e la dimensione “quantità di vita” è sicuramente essenziale, oltre alla “qualità di vita”. D’altra parte, è importante sapere se il controllo di malattia e il prolungamento dell’aspettativa di vita si accompagnano a un beneficio “soggettivo” oppure se, viceversa, arrivano a prezzo di un peggioramento della qualità di vita.
Ma davvero si può misurare la qualità di una vita? Permettimi di solleticare un po’ anche il tuo cuore “partenopeo”. Parlando con te, mi tornano in mente le parole di Erri De Luca sulle classifiche della qualità di vita delle città. Lui difende così la sua Napoli
«Considero qualità della vita poter mangiare ovunque cose squisite e semplici a prezzi bassi, che altrove sarebbero irreali. Considero qualità della vita il mare che si aggira nella stanza del golfo tra Capri, Sorrento e Posillipo. Considero qualità della vita il vento che spazza il golfo dai quattro punti cardinali e fa l’aria leggera. Considero qualità della vita l’eccellenza del caffè napoletano e della pizza. Considero qualità di vita la cortesia e il sorriso entrando in un negozio, la musica per strada. E considero qualità della vita l’ironia diffusa che permette di accogliere queste graduatorie con un “Ma faciteme ‘o piacere”.»
E come dargli torno. Ma immagino che in medicina sia diverso.
Beh, non bisogna nasconderci che la misurazione della qualità di vita sia una sfida ricca di insidie metodologiche. La cosa certa, peraltro, è che non può essere il medico a giudicare la qualità di vita del paziente. Noi medici possiamo sbilanciarci a confrontare le immagini di una TAC, possiamo interpretare i valori di laboratorio, possiamo visitare i pazienti per cogliere i segni di malattia, ma la qualità di vita, quella no, quella è “proprietà” del paziente. Quindi è chiaro che per misurarla bisogna impiegare strumenti che consentano direttamente all’interessato o all’interessata di dire come si sente. Si tratta dei cosiddetti “patient-reported outcomes” (o in gergo medico PROs). Sembrerà lapalissiano, ma la descrizione dei sintomi non deve essere filtrata né interpretata da un medico. La misurazione della qualità di vita si basa sull’impiego di strumenti (in questo caso questionari) che raccolgono informazioni su vari aspetti rilevanti. Naturalmente, per essere affidabili, gli strumenti devono essere validi. E fortunatamente per misurare la qualità di vita dei pazienti oncologici di strumenti utili ne esistono vari, alcuni anche disegnati specificamente per i diversi tipi di tumore. D’altra parte, non esiste lo strumento perfetto: le dimensioni della qualità di vita possono essere così tante che inevitabilmente qualsiasi tipo di valutazione rischia di trascurarne qualcuna. Anche la scelta di quando somministrare i questionari ai pazienti può essere un problema: se immaginiamo una terapia somministrata ciclicamente, come la chemioterapia, è facile pensare che molti disturbi possano essere più intensi nei giorni che immediatamente seguono la somministrazione, e meno nelle settimane successive. Come “fotografare” questo andamento?
Come sempre accade, non è poi facile misurare le differenze. Se un trattamento prolunga la sopravvivenza rispetto a un altro di 1, 3 o 6 mesi, tutti sappiamo subito quantificare la differenza e valutarne la rilevanza clinica. Ma se un trattamento migliora la qualità di vita rispetto a un altro di 5 punti, che vuol dire? E’ poco? E’ molto? E’ una differenza rilevante per i pazienti o è una differenza “sotto la soglia” della rilevanza clinica? Anche per questo argomento esistono studi che aiutano a interpretare i risultati osservati.
Credi che la scienza medica, e in particolare l’ambito oncologico, riescano davvero a dare il giusto valore a questo aspetto? Lo sviluppo di nuove terapie ma anche le programmazioni relative ai percorsi dei pazienti tengono adeguatamente in considerazione gli effetti che inducono sulla qualità della vita?
Eh, questa è una domanda cruciale. Diciamo che in passato la qualità di vita era sempre presente nei discorsi teorici di noi clinici (e di noi oncologi in particolare) come elemento importante per le decisioni terapeutiche, ma di rado veniva formalmente incorporata nello sviluppo di nuovi farmaci.
Purtroppo è un dato di fatto che molti studi clinici recentemente condotti su pazienti oncologici, anche su quelli con malattia metastatica, non abbiano preso in considerazione la valutazione della qualità di vita. Lo abbiamo evidenziato qualche tempo fa con un’analisi dei lavori pubblicati tra il 2012 e il 2016, focalizzata proprio su questo aspetto. Nonostante avessimo “ristretto” l’analisi a riviste di un certo prestigio, una percentuale tutt’altro che trascurabile degli studi clinici pubblicati non aveva incluso la qualità di vita tra gli obiettivi. In altri casi, pur avendola valutata, gli autori non avevano inserito le analisi di qualità di vita nella pubblicazione principale. Un dato preoccupante, che ha portato Lesley Fallowfield, nell’editoriale che ha accompagnato la nostra pubblicazione, a definire la qualità di vita un “outcome Cenerentola”, ancora troppo spesso trascurato.
Va detto che qualche segnale di cambiamento negli ultimi anni c’è stato. Nel 2019 un’intera sessione di comunicazioni orali al meeting ASCO (in particolare quella del tumore della mammella) è stata dedicata a presentazioni di dati di qualità di vita. Non ho verificato in maniera sistematica, ma credo che sia stata la prima volta.
Per di più, negli ultimi anni, le società scientifiche come ASCO e ESMO hanno incorporato, nelle rispettive scale, la qualità di vita nei parametri da considerare per attribuire il punteggio di valore ai trattamenti oncologici. Inoltre, le autorità regolatorie hanno prodotto documenti a sostegno della valutazione dei patient-reported outcomes e della qualità di vita nelle sperimentazioni cliniche oncologiche. Insomma, qualche segnale importante c’è stato.
Abbiamo capito la teoria, raccontami adesso qualcosa in più sulla pratica. Sai farmi qualche esempio di “successo”? Un caso (o più se vuoi) in cui si siano ottenuti specifici risultati importanti nel miglioramento della qualità di vita dei pazienti?
Per fortuna negli ultimi anni abbiamo assistito a numerosi progressi nell’ambito del trattamento dei tumori. Molti di questi progressi hanno comportato anche la dimostrazione di un beneficio in termini di qualità di vita. Quando parliamo di beneficio, dobbiamo ricordarci che esistono diversi modi in cui si può manifestare. È un discorso che a prima vista può sembrare complesso, ma è fondamentale capirlo.
Se la malattia all’inizio del trattamento si presenta con sintomi che compromettono la qualità di vita, il beneficio può manifestarsi precocemente, con un miglioramento della qualità di vita grazie al controllo dei sintomi. Lo abbiamo visto, per esempio, nel tumore del polmone (che spesso comporta sintomi all’esordio di malattia), quando abbiamo iniziato a studiare i farmaci target, come gli inibitori di EGFR, che oggi sappiamo essere il trattamento migliore quando nel tumore è presente una mutazione di EGFR.
Ebbene, quando ero a Napoli partecipai alla conduzione dello studio TORCH, che confrontava la chemioterapia e l’inibitore di EGFR erlotinib. Quando analizzammo i dati di qualità di vita, vedemmo che nei pazienti con mutazione di EGFR il beneficio in termini di qualità di vita globale era clamorosamente a favore di erlotinib rispetto alla chemioterapia. Viceversa nei casi in cui la mutazione di EGFR non c’era.
Quando invece il carico di sintomi all’esordio è per fortuna modesto, è difficile aspettarsi un miglioramento precoce della qualità di vita. In questi casi un aspetto importante diventa allora capire se, nel tempo, il trattamento sia in grado di ritardare il peggioramento dei sintomi e della qualità di vita. Sinceramente, credo che questo tipo di informazione sia più importante rispetto alla semplice dimostrazione che il trattamento ritardi la crescita delle immagini di malattia alla TAC. Quest’ultima informazione è sicuramente cruciale per capire se il trattamento stia funzionando o meno, ma molto più importante, per il paziente, è il controllo dei sintomi e il beneficio clinico. Quello la TAC non lo può documentare accuratamente, un questionario di qualità di vita può farlo molto meglio.
Non parlo per semplice esperienza. Anche in questo caso infatti abbiamo avuto negli ultimi anni vari esempi di trattamenti in grado di controllare molto più a lungo i sintomi, ritardando il peggioramento della qualità di vita. E’ capitato, giusto per fare un esempio, nello studio che ha confrontato il pembrolizumab con la chemioterapia nei casi di tumore del polmone con elevata espressione di PDL1. In quel caso, il beneficio in qualità di vita si è aggiunto alla dimostrazione di miglior controllo della malattia e di prolungamento della sopravvivenza. Nell’editoriale che ha accompagnato la pubblicazione di quei dati, ho immaginato i risultati di qualità di vita come un tassello nel mosaico del valore del trattamento. Una bella immagine, a mio parere, che rende bene l’idea di come la qualità di vita sia ormai una parte fondamentale della cura della malattia.
Dall’altra parte sono sicuro che hai anche qualche esempio negativo. Di mancata o inadeguata “considerazione” della qualità della vita.
Ti potrei raccontare molti casi! Per esempio in quell’analisi, di cui ti parlavo poco fa, che prendeva in considerazione tutti gli studi randomizzati condotti in pazienti affetti da tumori solidi, pubblicati tra il 2012 e il 2016 su 11 prestigiose riviste internazionali, quasi uno studio su 2 non aveva incluso la qualità di vita tra gli endpoint.
In quella lista ci sono molti studi che hanno portato all’approvazione di farmaci nella pratica clinica. Tu potrai dirmi: se sono stati approvati, evidentemente hanno dimostrato altri benefici, ad esempio un prolungamento della sopravvivenza o un miglioramento del controllo di malattia. Certo, questo è vero, però non dovremmo dimenticarci che, specialmente in alcune situazioni cliniche, i vantaggi dimostrati dai trattamenti sono mediamente abbastanza modesti, e quindi sarebbe essenziale conoscere l’effetto del trattamento in termini di qualità di vita. Per farti un esempio, quando ci siamo concentrati sull’attenzione alla qualità di vita negli studi condotti nel tumore del colon, siamo rimasti sorpresi dal fatto che oltre la metà degli studi condotti in seconda linea o linee ulteriori (quindi in una condizione clinica in cui purtroppo i benefici attesi sono modesti, e spesso i pazienti hanno sintomi di malattia) non avesse incluso la qualità di vita tra gli endpoint.
Su un piano personale, invece, perché hai deciso di investire tanto del tuo tempo da medico e ricercatore su questo tema?
Sicuramente molto ha influito il contesto in cui mi sono formato. Quando, ormai vent’anni fa, ho iniziato a frequentare, da giovane specializzando, l’Unità Sperimentazioni Cliniche dell’Istituto Tumori di Napoli, diretta da Franco Perrone, era stato appena pubblicato lo studio ELVIS, il primo studio randomizzato condotto specificamente nei pazienti anziani affetti da tumore del polmone. Quello studio, che ha modificato la pratica clinica mondiale, era stato disegnato proprio con la qualità di vita come endpoint principale, allo scopo di dimostrare che la chemioterapia potesse controllare i sintomi e migliorare la qualità di vita dei pazienti rispetto alla sola terapia di supporto. Per inciso, lo studio aveva anche dimostrato un modesto prolungamento della sopravvivenza globale, ma mi colpì molto la scelta di scommettere su un endpoint così poco usato nella maggior parte delle altre sperimentazioni. Da quel momento, partecipando alla conduzione di molte sperimentazioni cliniche (nel tumore del polmone, ma non solo), i questionari di qualità di vita e le relative analisi sono diventati parte della mia attività quotidiana.
E’ sicuramente un mondo affascinante, le analisi sono ricche di insidie metodologiche, la presentazione stessa dei risultati a volte rischia di essere molto complessa. Ma mi piace occuparmene, anche perché, essendo in un contesto in cui troppo spesso questo argomento viene ancora trascurato, credo sia opportuno sforzarsi di ricordarne a tutti l’importanza.
Da questo punto di vista, sono stato molto contento anche che quella revisione sistematica di cui ti ho parlato sia stata condotta grazie al lavoro di 14 giovani specializzandi.
Nell’era dell’enfasi per la medicina di precisione, per i farmaci target, per le analisi traslazionali, questo mi sembra essere il modo migliore per portare la qualità di vita al centro dell’attenzione, e far sì – spero – che nella formazione di oncologi non venga tralasciato un aspetto così importante.
Ho un’ultima domanda ancora, che vorrei farti da medico a medico, da persona a persona. Della qualità di vita dei medici o degli infermieri ci si preoccupa secondo te abbastanza?
Forse no. Negli ultimi anni ho letto molte analisi che spesso, in contesti diversi (sia italiani che internazionali) hanno evidenziato un alto rischio di insoddisfazione professionale e di burn out per chi lavora in ambito oncologico. Lo stesso vale anche per altre discipline, ma è chiaro che la mia attenzione sia caduta soprattutto sui dati relativi a chi fa il mio lavoro.
Le cause, ovviamente, sono molte, e soprattutto molti dei nostri colleghi lamentano l’eccessivo carico di lavoro rispetto alle risorse umane (che penalizza la quantità di tempo da dedicare alla comunicazione, sia con il paziente che con gli altri operatori), e l’aumentato carico di “burocratizzazione” dell’attività. D’altra parte, leggevo qualche tempo fa di un’indagine in cui veniva chiesto agli specialisti se avrebbero rifatto la stessa scelta in termini di specializzazione, e l’oncologia era una delle discipline con la più alta percentuale di “conferme”.
Insomma, pur con le difficoltà innegabili e crescenti, il nostro lavoro può essere prezioso, e come pochi altri può arricchire in termini di intensità del rapporto con il paziente. Per chiudere il cerchio, quindi, l’attenzione alla qualità di vita del paziente (non solo nelle sperimentazioni, ma nella pratica clinica quotidiana) può aumentare la nostra gratificazione, la nostra sensazione di fare qualcosa di concreto per gli altri, e in definitiva farci amare di più il nostro lavoro.
Massimo Di Maio ha dedicato parte del suo tempo a rispondere a queste nostre domande e lo ringraziamo per questo. Le sue conoscenze riguardo alla qualità di vita dei pazienti non si applicano però solo alla teoria – e per fortuna! Massimo infatti all’Ospedale Mauriziano di Torino ha dato il via a un programma che mira attraverso un questionario di poche domande ad aiutate i pazienti a descrivere meglio cosa sentono e fornire ai medici un quadro più chiaro della situazione. Questi risultati confermano l’importanza del coinvolgimento dei pazienti, protagonisti attivi insieme a medici e infermieri del proprio percorso di cura.