Abbiamo fatto qualche domanda a Gina Carapezza, la nostra esperta in psico-oncologia, per capire meglio come si possano intrecciare e unire il mondo della psicologia e quello del cancro, l’interesse per la propria professione e le storie di vita di ogni paziente.
Scegliere di essere psicologa è una decisione che sai ti porterà a situazioni emotivamente impegnative. Farlo in oncologia ancora di più. Cosa ti ha spinto e cosa più in generale può spingere a fare questa scelta?
Per rispondere alla tua domanda farò riferimento al “senso comune” col quale mi confronto ogni volta che mi presento come psicologa e la differente reazione quando aggiungo che lo faccio in oncologia. Nel primo caso le persone si aspettano che legga nella loro mente. Ci scappa la risata! Nel secondo caso i volti si incupiscono, qualcuno si sente in dovere di confortarmi: “Dev’essere dura…”. Altri invece sostengono la mia scelta: “Complimenti, ci vuole coraggio a fare il tuo lavoro!”. Poi ci sono gli scettici: “Che cosa dici ai pazienti? Li fai parlare? Come se parlare servisse a qualcosa”.
La verità è che quasi non ricordo più perché ho scelto di fare la psicologa. Da circa nove anni lavoro in oncologia e adesso la sensazione è di aver sempre voluto far questo nella vita. Fin dai tempi dell’università mi affascinava l’idea di lavorare in ambito ospedaliero. Mi sembrava un lavoro dinamico, di squadra. La scelta dell’oncologia è venuta dopo quando, in seguito a un’esperienza difficile della mia vita, mi sono resa conto che tutto sommato ero in grado di cavarmela. Così a un certo punto di questo percorso ho realizzato che la mia personalità unita alla mia formazione accademica potevano rappresentare un buon punto di partenza per esplorare la malattia oncologica. Una patologia che mette a dura prova l’esistenza, ma che offre tanto spazio di intervento psicologico.
Un malato di tumore come e perché arriva da uno psicologo?
Premetto che è del tutto normale provare emozioni di paura, tristezza, rabbia, angoscia, (e molto altro!) quando si affronta un evento destabilizzante come il tumore e che ogni persona possiede risorse interiori cui attingere per gestire le avversità della vita. Detto ciò, può però succedere che queste emozioni diventino talmente intense da compromettere la serenità mentale delle persone, la loro qualità di vita o la relazione con gli altri, arrivando persino a ridurre la motivazione che spinge ad affrontare la malattia.
Quando queste sensazioni spiacevoli persistono e diventa difficile controllarle (alcuni si sentono sopraffatti dall’ansia o faticano a dormire la notte), le persone possono decidere di rivolgersi allo psicologo, per scelta personale o perché qualcuno le ha consigliate riguardo (familiari, amici, il proprio medico di fiducia).
Nel mio caso è frequente che le persone si rivolgano a me anche perché stanche di avere pensieri negativi sul cancro e sulla propria condizione. Si innescano delle pericolose “trappole mentali” e nei casi più gravi si rimane come “bloccati” in questi meccanismi di pensiero. La domanda è che si ponga rimedio a questo malessere, la risposta consiste nell’inquadrare la problematica e mettere in atto le strategie psicologiche più adeguate a far fronte al disagio manifestato.
A tuo avviso quello che si sta facendo oggi in psico-oncologia basta? O forse un maggior numero di pazienti avrebbe bisogno di aiuto psicologico? Cosa si sta facendo in questo senso?
Se consideriamo che in alcune realtà oncologiche non è presente lo psicologo, sono obbligata a rispondere che è necessario fare di più. I bisogni espressi rimangono spesso disattesi e quei pazienti meritevoli di sostegno ma che non sono in grado di manifestare il proprio bisogno con richieste di aiuto rischiano di passare inosservati.
Rispetto al passato però c’è un’attenzione mediatica più significativa che crea spazi di riflessione importanti per sensibilizzare l’opinione pubblica ma anche la politica sanitaria circa la necessità di offrire supporto psicologico ai pazienti per garantire la cura globale del cancro secondo i migliori standard e linee guida internazionali.
Inoltre la collaborazione tra le più autorevoli società scientifiche in ambito oncologico e psico-oncologico, vedi l’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) e la Società Italiana di Psico-oncologia (SIPO), creano opportunità di crescita professionale. Anche le associazioni di pazienti sono attive in tal senso. Mi viene in mente il caso di Europa Donna che lo scorso anno in partnership con SIPO ha lanciato un appello alle Regioni e al Ministero affinché il supporto psicologico venisse assicurato a tutte le pazienti ammalate di tumore al seno e per farlo hanno condotto un’indagine che ha rilevato i bisogni psico-sociali dei pazienti, formulando così una richiesta basata sulle evidenze.
E per quanto riguarda i familiari?
I familiari meritano quasi le stesse attenzioni di cui hanno bisogno i pazienti. Essere ammalato di cancro è un’esperienza che non riguarda soltanto la persona che ha ricevuto la diagnosi ma tutta la famiglia in qualche modo si trova coinvolta. Quando il cancro si insinua nella vita delle persone ridisegna gli equilibri familiari. Cambiano i ruoli, gli impegni e le aspettative future.
Come nel caso della persona ammalata, anche la famiglia ha normali reazioni di stress all’evento malattia e nella maggioranza dei casi è in grado di attivare risorse adatte a fronteggiare al meglio l’esperienza del cancro. Ma in alcuni casi lo stress può essere talmente forte da innescare una serie di criticità che richiedono l’intervento esterno per essere affrontate.
Mi capita di incontrare individualmente i membri di una famiglia oppure a piccoli gruppi. Insieme discutiamo le reazioni emotive associate alla malattia nelle dinamiche familiari: come cambiano le relazioni, come favorire la comunicazione e quali azioni introdurre per riorganizzare gli equilibri con la malattia sono cambiati.
Ma gli incontri di psicoeducazione sull’impatto della malattia in famiglia non sono da intendersi solo al bisogno. A mio avviso sono utili anche a prevenire il distress e a favorire l’adattamento del cancro in famiglia come quando si devono affrontare le cure antiblastiche del caso e diventa utile discutere circa i risvolti emotivi degli effetti collaterali dei trattamenti, ma anche confrontarsi sulle condotte alimentari, l’igiene del sonno, l’abitudine di fumare, la condotta sessuale.
I figli, bambini o giovani adolescenti, di chi ha un tumore possono avere bisogno dei giusti strumenti per affrontare queste sfide. Cosa ci puoi dire su questo?
Innanzitutto bambini e adolescenti hanno bisogno di sapere, di essere informati della malattia che ha colpito il genitore. Spesso però succede il contrario. I genitori cercano di nascondere la malattia ai bambini, così come i sentimenti che provano. Lo fanno in buona fede, convinti di agire a tutela del minore: “Non penso a me, penso ai miei figli” è la battuta più ricorrente quando inizio un colloquio coi genitori ammalati di tumore. Seguita da: “Ho paura che rimangano traumatizzati!”. Si vuole evitare cattive notizie per scongiurare sviluppi traumatici. È necessario che i genitori vengano informati della possibilità di accedere al counseling psicologico dedicato alla condivisione della diagnosi in famiglia. I genitori devono sapere che i bambini hanno bisogno di verità (detta prendendo tutti gli accorgimenti del caso, a seconda della loro età) e di rapporti autentici. È normale che la malattia dei genitori generi una sorta di minaccia alla propria sicurezza e che i piccoli (ma anche gli adolescenti) possano sentirsi impauriti, disorientati. È protettivo per la salute mentale dei bambini (e degli adulti) sapere che provare quelle emozioni è normale, che capita a tutti i bambini e anche mamma e papà. Condividere queste emozioni ha un potere calmante, rassicurante e li aiuterà ad affrontare tutto il cambiamento in modo più adeguato. Aiutarli a esprimere paure e dubbi è molto importante per evitare che ricorrano all’immaginazione per spiegarsi gli eventi che li circondano a cui non trovano risposte adeguate dagli adulti di riferimento. E la fantasia dei bambini può essere persino più spietata della realtà! I genitori devono sapere che non è necessario essere esperti per aiutare i propri figli ma che possono ricevere il sostegno di uno psicologo che li guiderà ad affrontare la malattia a casa. Il primo passo è accettare, anche noi adulti, che la sofferenza fa parte della vita.
Come si diventa psicologi in campo oncologico? Che percorso formativo si deve seguire?
Lo psiconcologo è uno psicologo o un medico (specialista in psichiatria) che ha una formazione specifica nel supporto psicologico, meglio ancora nella psicoterapia, delle persone ammalate di cancro. Lo psicologo che lavora in ambito oncologico deve aver acquisito competenze tecniche, scientifiche e pratiche specialistiche dell’area oncologica. Il mio caso può essere esemplificativo: in seguito alla laurea in psicologia ho conseguito la specializzazione in psicoterapia cognitivo comportamentale – ma ognuno sceglie l’orientamento psicoterapeutico che preferisce – e ho completato la mia formazione col Master Universitario di II livello in psico-oncologia. Inoltre, con l’esperienza e il lavoro in ambito oncologico, ho maturato i requisiti (attività prestata come formatore, relatore a convegni/corsi, attività di ricerca) utili a ottenere la certificazione SIPO e la relativa iscrizione all’Albo degli psico-oncologi.
Qual è il rapporto con i medici e con altre figure che assistono i pazienti?
Approfitto della tua domanda per dire che il rapporto con i medici è fondamentale perché in alcuni casi capita ancora che oncologi e psicologi non si incontrino. Il rapporto non può risolversi nel solo invio del caso. Credo che le relazioni migliori siano quelle in cui si realizza una collaborazione diretta, in cui lo psicologo è una figura integrata nel team. Le nuove generazioni di medici riconoscono le implicazioni psicologiche dei tumori e sono più sensibili a questi aspetti e molto inclini alla collaborazione. Inoltre siamo tutti più abituati a lavorare in contesti multidisciplinari. Mi riferisco in particolare alle varie figure che assistono i pazienti. I tumor board, per esempio, sono una realtà sempre più ricercata nei centri oncologici e non è inusuale che si discutano anche gli aspetti psicologici della malattia.
Un ambito dove a mio avviso si dovrebbe collaborare di più è quello della prevenzione oncologica, perché per quanto gli oncologi si impegnino a raccomandare uno stile di vita sano per scongiurare il rischio di sviluppare tumori futuri, lo psicologo deve agire contemporaneamente sulla gestione emotiva per ridurre l’emissione di tutti quei comportamenti che se abusati espongono al rischio di ammalarsi.
Che legami ci sono con il mondo della ricerca? Si deve e si può fare di più? Come?
Sicuramente si può e si deve fare di più. Anche nel nostro campo, il lavoro clinico non può prescindere da un riferimento costante alla ricerca scientifica. Si tratta di un arricchimento reciproco: da un lato, lo psicologo trova nella ricerca la conferma alle proprie intuizioni cliniche e prove della validità del proprio approccio terapeutico. Dall’altro lato, la ricerca necessita dei dati raccolti sul campo per corroborare le proprie ipotesi e produrre importanti avanzamenti delle conoscenze su determinati argomenti.
Un esempio di questa integrazione tra clinica e ricerca lo troviamo alla fine di ogni capitolo dedicato alle linee guida dell’assistenza psico-sociale dei malati oncologici disponibili sul sito internet di AIOM (in collaborazione con SIPO) che suggerisco di consultare per trovare spunti di lavoro.
Personalmente anch’io vorrei fare meglio e di più. Ho delle idee che mi piacerebbe sviluppare coinvolgendo colleghi di diversa formazione perché ritengo che anche un progetto di ricerca possa essere più interessante se concepito da professionalità diverse.
Inoltre, credo che anche le società scientifiche dovrebbero impegnarsi di più coinvolgendo i soci nella realizzazione di studi multicentrici e organizzando corsi di formazione specifici per colmare lacune e avvicinare soprattutto i giovani professionisti al mondo della ricerca.
Il mondo del lavoro in Italia che opportunità offre? Ci sono sbocchi professionali maggiori in ambito pubblico o privato? Secondo te cosa si dovrebbe migliorare?
Sono una forte sostenitrice del Sistema Sanitario Nazionale (SSN), per cui ritengo che le prestazioni migliori si possano ottenere in ambito ospedaliero pubblico presso servizi psico-oncologici dedicati. Fatta questa premessa, purtroppo l’ambito per le cure psico-sociali delle persone ammalate di tumore non è quello più battuto e non è valorizzato come meriterebbe e di conseguenza non assicura adeguati sbocchi professionali. Per intenderci, prima discutevamo della necessità di collaborazione tra medici e psicologi, ma non ho detto che purtroppo questa necessità non sempre è soddisfatta a causa della discontinuità di questi rapporti che spesso non sono assicurati dalle politiche sanitarie ma affidati all’illuminazione del singolo medico che si deve adoperare per avere uno psicologo nella sua squadra attraverso progetti dedicati, borse di studio o altro.
Se non sei Dirigente Psicologo, le opportunità di crescita professionale si possono ottenere partecipando a iniziative brillanti, eventi scientifici o collaborando con riviste specialistiche. Nella sostanza rimani precario, ma almeno sei un precario di grande valore! Una situazione simile insomma a quella del data manager in oncologia. Per quanto riguarda la retribuzione economica, non sono in grado di esprimermi circa la posizione dei Dirigenti Psicologi perché – mio malgrado – non sono strutturata; ma posso dire che le borse di studio che si aggirano intorno ai diecimila euro non permettono di soddisfare nemmeno i bisogni primari. Una retribuzione adeguata, a mio parere, dovrebbe partire dai ventimila euro.
La buona notizia rispetto al passato è il riconoscimento della psicologia come prestazione sanitaria, per cui ho ancora un po’ di fiducia nelle istituzioni e mi piace pensare che col tempo il SSN si adeguerà ai nuovi requisiti, e di conseguenza potranno migliorare sia le opportunità di carriera sia le possibilità degli ammalati di cancro di accedere a diversi servizi di psicologia, componente essenziale di un’assistenza oncologica ottimale.
Ci sono buone opportunità di formazione e networking con i colleghi? Che valore dai a queste reti?
Attribuisco loro un valore immenso, come nel caso di fare networking attraverso il web. Ho iniziato a usare i social network per passione, perché mi piaceva l’idea di condividere contenuti significativi della mia esperienza specialistica oltre i confini fisici della mia attività professionale ordinaria e mi si è aperto un mondo di occasioni, crescita professionale, nuove possibilità di confronto con colleghi che operano in realtà diverse dalla mia. Ho conosciuto professionisti talentuosi e nuove realtà di advocacy a cui potermi ispirare. Sono nate persino amicizie e collaborazioni interessanti.
Infine, ti andrebbe di raccontarci un episodio, una storia, un contatto, che ti ha fatto dire: “Ho scelto di fare il lavoro più bello che potessi fare”?
Gli episodi sono innumerevoli, ma mi viene in mente uno di quei momenti che mi hanno fatto esclamare: fortuna che sia intervenuta! Per esempio nel caso di una giovane mamma ricoverata da più di due settimane che si rifiutava di sentire i suoi figli, di vederli e stava programmando il ritorno a casa affidata alle cure palliative, in solitudine. Non voleva che i bambini la vedessero gravemente ammalata. A piccolissime dosi ho iniziato una serie di colloqui focalizzati sulla necessità di condividere la malattia in famiglia e alla fine abbiamo concordato l’incontro. Quel giorno l’aveva trascorso quasi tutto il tempo assopita, ma quando sono arrivati i piccoli ho assistito al miracolo della vita, si era destata in tempo per abbracciarli, baciarli. Era piena di gioia. Situazioni simili mi restituiscono il senso del mio lavoro anche nelle situazioni più avverse. Noi non salviamo vite, ma possiamo favorire momenti di vitalità come quello descritto. E poi il mio lavoro è meraviglioso perché mi permette di essere versatile, di fare clinica, ricerca, aggiornamento professionale; di partecipare ai convegni, di intervenire e condividere la mia esperienza; di fare networking e conoscere nuove straordinarie realtà come la vostra!